Ernesto Fazzalari
Ernesto Fazzalari

L’arresto di Fazzalari: una data simbolica

27 giugno 2016. Una data impressa nella memoria della lotta alla criminalità organizzata. Dopo vent’anni di latitanza, Ernesto Fazzalari, uno dei boss più pericolosi e ricercati d’Italia, veniva arrestato dai carabinieri del ROS in un’operazione chirurgica, silenziosa e letale. L’uomo che per due decenni aveva incarnato il volto oscuro della ‘Ndrangheta fu sorpreso in un casolare isolato sull’Aspromonte, a pochi chilometri dal suo regno: Taurianova, nella Piana di Gioia Tauro.

«Era uno dei cinque latitanti più pericolosi d’Europa. Un boss invisibile, ma operativo. La sua cattura rappresenta un colpo simbolico e operativo alla ‘Ndrangheta», scrisse “La Repubblica” nei giorni successivi all’arresto.

 

La caccia al fantasma: 20 anni di latitanza tra muri di omertà

Dal 1996, Fazzalari era fuggito alla giustizia dopo l’ordine di cattura emesso nell’ambito dell’Operazione Taurus. La maxi inchiesta, coordinata dalla DDA di Reggio Calabria, aveva acceso i riflettori su una delle più sanguinose guerre mafiose del Sud Italia: la faida di Taurianova, combattuta tra le famiglie Asciutto-Neri-Grimaldi e il cartello Fazzalari-Crea-Viola. Un conflitto che seminò morti e vendette per anni, con oltre 30 omicidi accertati.

Durante la latitanza, nonostante i proclami istituzionali, Fazzalari non lasciò mai davvero la Calabria. Restò nascosto tra le montagne che conosceva a memoria, protetto da una rete invisibile di complicità e paura.

Nel 2010, una fonte anonima lo descrisse al “Corriere della Sera” come:
«Un boss che non ha mai mollato. Non gli servivano rifugi dorati all’estero. La sua forza era la fedeltà del territorio. E il silenzio di chi sapeva e taceva.»

 

Il blitz del ROS: la fine di un’era

All’alba del 26 giugno 2016, l’operazione scattò. L’irruzione nel casolare avvenne con un’azione fulminea. Nessuno sparo, nessuna fuga. Fazzalari si arrese senza opporre resistenza. Accanto a lui, una donna di 41 anni, anche lei arrestata. Nel covo furono ritrovati una pistola con matricola abrasa, munizioni e documentazione ritenuta strategica per ulteriori indagini.

L’operazione fu il frutto di un’indagine paziente e silenziosa, fatta di intercettazioni ambientali, osservazioni discrete, e un lavoro certosino di ricostruzione della rete di fiancheggiatori.

 

L’esultanza politica: Alfano e la vittoria dello Stato

Il giorno successivo, il 27 giugno 2016, fu l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano a dare l’annuncio ufficiale, con un post trionfale sui social:
«Oggi la Squadra Stato ha messo a segno uno dei suoi gol più belli.»

E ancora, in una dichiarazione formale:
«I nostri Carabinieri hanno individuato e tratto in arresto Ernesto Fazzalari, inserito nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità. Alla giustizia non si sfugge. Questa è una delle vittorie che ci confortano e ci sostengono nella difficile ma possibile lotta contro il crimine organizzato.»

Il plauso andò anche al comandante generale dell’Arma, Tullio Del Sette, e alla Direzione Distrettuale Antimafia che coordinò l’operazione.

 

Ma il sistema è intatto: il potere della ‘Ndrangheta non è finito

Nonostante l’enfasi mediatica, la cattura di Fazzalari fu solo una battaglia vinta. Il vero conflitto con la ‘Ndrangheta è tutt’altro che concluso. Come scrisse Lirio Abbate su “L’Espresso”:
«Per ogni Fazzalari che cade, ce ne sono altri pronti a prenderne il posto. La ‘Ndrangheta non è un uomo. È un sistema.»

E in effetti, sebbene il boss sia stato consegnato alla giustizia, i suoi beni, le sue alleanze, la rete criminale e imprenditoriale costruita in anni di dominio, non sono svaniti con lui. Molti dei suoi uomini restavano ancora attivi all’epoca, e il clan aveva già avviato un passaggio generazionale nel silenzio, nell’ombra.

 

Un colpo storico, ma non definitivo

L’arresto di Ernesto Fazzalari fu un evento epocale per la lotta alla mafia calabrese. Ma rappresentò più una vittoria di facciata che la vera fine di un sistema. La ‘Ndrangheta ha dimostrato, nel tempo, una capacità mimetica e adattiva impressionante, capace di sopravvivere ai suoi leader e infiltrarsi nella politica, nell’economia e perfino nelle istituzioni.

A distanza di anni, il messaggio resta attuale: senza un’azione continua, coordinata e trasparente da parte dello Stato, la cattura di un boss rischia di essere solo un atto simbolico, utile alla propaganda ma inutile se non accompagnato da una vera rivoluzione culturale e sociale nelle terre che lo hanno protetto.