In Calabria c’è il sole, la terra fertile, la sapienza contadina, l’identità agricola impressa nel Dna. C’è tutto. Eppure, nei banchi dei supermercati, trovi peperoncini che arrivano dall’India o dalla Cina, limoni dal Sudafrica, arance dal Marocco, pomodori dalla Spagna, aglio dalla Cina, grano dal Canada. Succede qui, nella regione che potrebbe essere il cuore pulsante dell’agricoltura mediterranea. Succede perché abbiamo smesso di difendere la sovranità alimentare, il diritto di decidere cosa mangiamo, come lo produciamo, e da chi. Un diritto che dovrebbe essere sacro, e che invece è stato barattato con la promessa di un mercato globale che ci ha resi dipendenti, marginali, irrilevanti.

La globalizzazione alimentare ha distrutto le economie locali

Negli ultimi vent’anni, la globalizzazione alimentare ha distrutto intere economie locali. In nome della competitività, abbiamo accettato l’idea che tutto debba viaggiare: il cibo, prima di tutto. Ma se il trasporto di merce è diventato più veloce ed economico, il prezzo lo stanno pagando i territori. I nostri. È più conveniente per una grande catena comprare cipolle egiziane che cipolle di Tropea. Più facile importare arance spagnole che valorizzare quelle della Piana di Gioia Tauro. Più “efficiente” riempire gli scaffali di conserve straniere che sostenere i piccoli trasformatori calabresi. Il risultato è che i nostri agricoltori guadagnano meno di quanto spendono per produrre. E spesso lasciano marcire i frutti sugli alberi. Questa logica è insostenibile. Economicamente, socialmente, ecologicamente. Ma anche culturalmente. Perché il cibo non è una merce qualsiasi: è identità, territorio, memoria. E quando il cibo locale scompare, scompare anche il senso di appartenenza.

La Calabria può produrre tutto ma importa

La Calabria potrebbe vivere di agricoltura e agroalimentare. Non in modo nostalgico o retorico, ma con una visione moderna, sostenibile, competitiva. I numeri parlano chiaro: oltre un terzo del territorio regionale è agricolo. Le produzioni tipiche sono decine: agrumi, olio extravergine, fichi secchi, salumi, formaggi, legumi, peperoncino, vino. Eppure, la maggior parte di queste eccellenze non riesce a uscire dai confini locali. Le filiere sono deboli. I trasformatori sono pochi. La logistica è disastrosa. La burocrazia opprime, mentre i fondi europei vengono spesso sprecati in progetti fini a sé stessi. Il paradosso è che proprio nei territori più vocati si registra il tasso più alto di abbandono agricolo. E allora ecco la grande domanda: perché una regione che può produrre tutto, importa tutto? Perché non si investe seriamente nell’autosufficienza alimentare ed energetica? Perché non si costruisce un modello economico fondato sulla valorizzazione delle risorse interne, invece che sulla dipendenza da fuori?

Sovranità alimentare con strategia

La sovranità alimentare non è un’utopia da ambientalisti radicali. È una necessità strategica. In un mondo instabile, segnato da guerre, crisi climatiche e catene logistiche fragili, non possiamo più permetterci di delegare ad altri la produzione del nostro cibo. Diventare autosufficienti non significa chiudersi a riccio. Significa coltivare qui ciò che qui cresce meglio – e in Calabria, grazie a un patrimonio agricolo straordinario, possiamo farlo. Possiamo produrre peperoncino, agrumi, olio, grano, vino, legumi, ortaggi. E dagli altri Paesi, comprare solo quello che realmente non possiamo avere: magari caffè, cacao, spezie esotiche. È una visione concreta, non ideologica. Una sfida realizzabile se si uniscono politica, impresa, comunità e cittadinanza attiva. Serve una strategia, serve una direzione, serve una volontà.

Serve una politica agricola seria

È il momento di pretendere una politica agricola regionale seria. Di rilanciare le filiere corte, i mercati contadini, le cooperative di trasformazione. Di legare il turismo al cibo vero, al paesaggio rurale, alle comunità. Di utilizzare i fondi pubblici non per premiare chi ha già tutto, ma per sostenere chi custodisce la terra. È il momento di educare i cittadini a scegliere con consapevolezza, a leggere le etichette, a rifiutare il cibo anonimo. È il momento di fare rete, tra produttori, ristoratori, scuole, cittadini.

Sovranità alimentare significa libertà. E la Calabria ha tutte le carte per essere libera. Basta volerlo davvero.​