Processo Frontiera, il boss Franco Muto condannato a 20 anni di carcere
Riconosciuto il reato di associazione di stampo mafioso. In primo grado era stato assolto

Una nuova pagina si aggiunge alla lunga storia giudiziaria del cosiddetto "Re del pesce". La Corte d’Appello di Catanzaro ha inflitto una pesante condanna a Franco Muto, portando la sua pena a 20 anni di reclusione. Una decisione che ribalta - in parte - la sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Paola, che lo aveva condannato a soli 7 anni e 6 mesi, assolvendo l’imputato dall’accusa di associazione mafiosa. La richiesta del pubblico ministero di una condanna a vent’anni è stata - dunque - accolta in pieno.
18 condanne inflitte in primo grado
Ma non è tutto. Oltre alla detenzione, il tribunale ha disposto nei confronti di Muto tre anni di libertà vigilata, la confisca dei beni e di tutti i rapporti finanziari a lui riconducibili. Se da un lato il boss è stato assolto, insieme ad Agostino Bufanio e Pier Matteo Forastiero, dall’accusa di intestazione fittizia di beni, dall’altro la sentenza di secondo grado ha confermato ben 18 condanne inflitte in primo grado. Pene rideterminate solo per alcuni imputati: Pierpaolo Bilotta sconterà 2 anni, Alessandra Magnelli e Simona Maria Russo 3 anni e 9 mesi, Antonio Mandaliti 14 anni, mentre per Luigino Valente la condanna arriva a 22 anni, 10 mesi e 10 giorni. Assolto per non aver commesso il fatto Andrea Ricci, mentre nei confronti di Angelo Chianello è stato dichiarato il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.
Il monopolio che spaziava su più attività commerciali
Il processo Frontiera prende il nome dall’operazione che il 19 luglio 2016 ha portato all’arresto di 58 persone con accuse pesantissime: associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, estorsione e rapina. Tra i principali indagati, proprio Franco Muto e i suoi figli Luigi e Mary (detta Mara). L’inchiesta, condotta dal ROS, ha svelato l’incredibile potere criminale esercitato per oltre trent’anni dal clan Muto su tutta l’economia del Tirreno Cosentino. Un vero e proprio monopolio che spaziava dalla commercializzazione del pesce alle lavanderie industriali per hotel, fino ai servizi di sicurezza nei locali notturni. Un impero costruito su minacce, intimidazioni e legami con altre organizzazioni criminali.
Lo spaccio di droga e gli appalti pubblici
Le indagini hanno rivelato anche un vasto traffico di droga che riforniva di cocaina, hashish e marijuana le principali località turistiche della costa tirrenica calabrese. Un sistema di controllo tentacolare che, secondo la DDA, si estendeva fino al settore degli appalti pubblici. Tra i nomi coinvolti nell’inchiesta, anche l’imprenditore Giorgio Ottavio Barbieri e il suo collaboratore Massimo Longo, accusati di aver stretto patti con il clan per garantirsi appalti di grande rilievo, come l’aviosuperficie di Scalea, il restyling di Piazza Bilotti a Cosenza e gli impianti di risalita di Lorica, ora sotto amministrazione giudiziaria.
Una sentenza che segna un duro colpo per la cosca Muto, confermando l'efficacia del lavoro investigativo delle forze dell’ordine. La giustizia ha parlato e il messaggio è chiaro: nessun regno criminale è destinato a durare per sempre.