Grande distribuzione organizzata GDO
Grande distribuzione organizzata GDO

Siamo convinti di essere liberi quando facciamo la spesa

Giriamo tra i corridoi illuminati del supermercato, scegliamo, confrontiamo, passiamo da un marchio all’altro. Sembra tutto semplice, democratico, perfino divertente. Ma la verità è che quando prendiamo in mano un pacco di pasta o una confezione di pomodori, qualcun altro ha già deciso per noi. Ha deciso cosa troveremo, cosa no, a che prezzo, con quale storia dietro. Quel qualcuno è la GDO, la Grande Distribuzione Organizzata. Pochi colossi, nomi noti e meno noti, che controllano l’accesso al mercato alimentare. Decidono cosa arriva sugli scaffali, cosa resta fuori, chi guadagna e chi muore. E no, non è una teoria del complotto: è il sistema reale che regola gran parte dell’alimentazione in Italia, e in Calabria più che mai.

Logiche d'acciaio 

Le logiche sono ferree: il prodotto deve avere una resa economica alta, una disponibilità continua, una shelf-life lunga, un prezzo competitivo e un packaging seducente. Tutto il resto — qualità artigianale, stagionalità, filiera corta, rispetto del territorio — è irrilevante, se non controproducente. Non importa se le arance arrivano a due chilometri dal supermercato. Se non rispettano i parametri della GDO, non entrano. Punto. E così il paradosso è servito: il produttore calabrese che coltiva con cura, su piccola scala, resta fuori dal mercato. I suoi pomodori non sono “standardizzati”, le sue marmellate non hanno il volume necessario, il suo olio non può competere con i prezzi stracciati dell’extravergine tunisino imbottigliato a Milano. La GDO non compra località, compra efficienza. E l’efficienza ha sede a migliaia di chilometri.

Ma il potere della grande distribuzione non si limita a scegliere i prodotti

 Decide anche le storie che ci vengono raccontate. Lo scaffale è una scenografia, costruita a tavolino. I prodotti “locali” a marchio privato sono spesso confezionati da multinazionali che hanno ben poco di locale. Le “offerte” sono studiate per spostare i flussi di acquisto. I piccoli produttori sono relegati a comparsate marginali, o costretti a entrare nel sistema perdendo autonomia, margine e identità. Eppure, tutto questo accade con il nostro silenzio, anzi: con il nostro plauso. Perché ci fa comodo trovare tutto in un solo posto, parcheggiare, fare la spesa veloce, risparmiare sul centesimo. Siamo consumatori complici. La comodità è diventata il nostro principale criterio etico. Se un contadino fallisce, pazienza. Se la marmellata è fatta con zucchero invertito e aromi artificiali, basta che costi poco. Se l’arancia arriva dal Marocco, che importa? Tanto è bella uguale.

In questo scenario, il mercato locale soffoca

 Le botteghe chiudono, i produttori mollano, la qualità cede il passo alla quantità. I territori perdono la loro voce, e la GDO diventa l’unico megafono. Ma a parlare è solo chi ha i numeri — e i margini — per stare dentro al gioco. Chi decide cosa mangiamo? Non lo chef, non la nonna, non il contadino. Ma un algoritmo, un buyer, un magazzino automatico. E se non rompiamo questo meccanismo, la nostra libertà alimentare resterà un’illusione su ruote, con il carrello pieno ma il gusto vuoto. Il cambiamento? Parte dallo scaffale. Da chi lo rifiuta, da chi cerca altrove, da chi chiede nomi e cognomi a ciò che mangia. Non serve essere eroi: basta essere consumatori svegli. Perché se lasciamo decidere tutto alla logica del profitto, ci ritroveremo a mangiare sempre la stessa cosa, ovunque, senza sapere né da dove viene né a chi ha tolto il posto.