‘Ndrina: il cuore velenoso della ‘ndrangheta che avvelena la Calabria
Famiglie di sangue, regole di ferro e potere ereditato come un cognome. Le ‘ndrine sono le cellule base della criminalità organizzata calabrese, la cui forza si alimenta nel silenzio e nell’indifferenza. Ma conoscere è il primo passo per cambiare

In Calabria la mafia ha un nome di famiglia: si chiama ‘ndrina. E non è solo un clan, non è solo una “banda di malviventi”. È molto di più. È una struttura radicata, un organismo che respira, cresce, si evolve. È la pietra angolare della ‘ndrangheta, una delle organizzazioni criminali più potenti al mondo. Eppure, troppo spesso, la sua presenza resta nell’ombra. Invisibile. Accettata. Quasi “normale”. Ma cos’è davvero una ‘ndrina? E perché è così difficile sradicarla?
La ‘ndrina: famiglia, sangue, potere
Secondo la definizione di Wikipedia, la ‘ndrina è l’unità di base della ‘ndrangheta calabrese. È un gruppo criminale formato in gran parte da membri legati da vincoli familiari o di sangue, che opera su un territorio specifico, solitamente un comune o addirittura una singola frazione. Ogni ‘ndrina ha una sua autonomia operativa, ma risponde – in casi di alleanze più ampie – a strutture superiori come il locale, la camera di controllo o il crimine. Nel gergo mafioso, la ‘ndrina non è una semplice organizzazione: è una vera e propria famiglia criminale. Non si entra per merito. Si nasce dentro. Si eredita. Un figlio di ‘ndranghetista, se non si ribella, diventa un ‘ndranghetista. È il sangue a determinare il destino. Questa struttura familiare garantisce coesione, omertà, protezione. Ma garantisce anche una pericolosa continuità: la criminalità si trasmette come un patrimonio genetico. Ogni padre iniziato è anche un maestro d’onore. Ogni figlio è un potenziale soldato.
Una rete di potere che parte dal basso
Le ‘ndrine controllano il territorio come piccoli feudi. Decidono chi lavora e chi no, chi può aprire un bar e chi deve chiudere. Impongono il pizzo, condizionano le gare d’appalto, gestiscono lo spaccio, infiltrano la politica locale. In alcuni paesi calabresi – e non è un’esagerazione – la ‘ndrina è più forte dello Stato. E quando lo Stato si presenta, spesso è tardi. Non sono solo boss e picciotti. Ci sono colletti bianchi, avvocati, geometri, imprenditori. Tutti legati a un sistema di potere che si regge su due pilastri: la paura e l’assuefazione. Paura di denunciare. E assuefazione all’idea che “tanto è sempre stato così”. Ma è proprio questo il punto: non deve essere sempre così.
Calabria: una terra ferita, ma non finita
La Calabria è piena di borghi svuotati, dove la ‘ndrina è rimasta l’unica “autorità”. Ma è anche piena di persone che lottano. Magistrati, giornalisti, attivisti, parroci, insegnanti. Gente che dice no, ogni giorno, spesso in solitudine. Eppure, ogni no è una crepa nel muro. È facile pensare che la ‘ndrangheta sia invincibile. È comodo rassegnarsi. Ma è proprio quello che loro vogliono: che ci abituiamo. Che ci arrendiamo. Che consideriamo “normale” vivere in una terra dove i figli si educano alla paura e non alla speranza. La verità è che la ‘ndrina si nutre del silenzio. Ma muore sotto la luce.
Un cambiamento possibile
Oggi più che mai, in Calabria, servono occhi aperti, parole forti, azioni concrete. Non bastano le operazioni delle forze dell’ordine, pur fondamentali. Serve una rivoluzione culturale. Serve una scuola che insegni a disobbedire al male. Serve una politica pulita, coraggiosa. Serve una cittadinanza che non volti lo sguardo. Perché il cambiamento non arriverà da Roma. Né da Bruxelles. Il cambiamento arriverà solo se noi lo pretendiamo. Se smettiamo di credere che la ‘ndrina sia inevitabile. Se torniamo a credere che questa terra merita di più. Non sarà facile. Ma è possibile. E oggi, forse più che mai, necessario.