Donne di ’ndrangheta
Donne di ’ndrangheta

Donne di ’ndrangheta

Per anni considerate figure marginali o vittime silenziose del contesto criminale, le donne della ’ndrangheta hanno invece un ruolo centrale, spesso decisivo, nella struttura e nella sopravvivenza delle cosche calabresi. Mogli, madri, figlie, dietro queste identità apparentemente “tradizionali” si nasconde spesso una rete di controllo familiare capillare, che garantisce continuità, riservatezza e potere. Non sono solo custodi della morale mafiosa, ma anche protagoniste attive, capaci di gestire affari, mantenere alleanze, o  nei casi di latitanza e detenzione, sostituire direttamente i capi uomini alla guida delle ’ndrine.

Non solo reggenti, le “madri dell’onore”

La cultura ’ndranghetista si fonda sulla famiglia e sul sangue, e in questo sistema le donne hanno un peso enorme, educano i figli al rispetto del codice mafioso, tutelano i legami tra famiglie, e sorvegliano che le regole non vengano infrante. Sono loro a tramandare i valori dell’omertà e della vendetta, e a vigilare sulla condotta interna, soprattutto quella femminile. In molte inchieste giudiziarie, intercettazioni ambientali hanno rivelato donne capaci di organizzare incontri riservati, gestire il denaro del clan, o comunicare gli ordini ai detenuti. Alcune diventano addirittura “portavoce” ufficiali, in un contesto in cui la riservatezza è legge.

La rottura del silenzio, pentite e testimoni di giustizia

Negli ultimi anni, alcune donne hanno scelto di rompere il silenzio e collaborare con la giustizia, un atto di coraggio, spesso dettato dalla volontà di salvare i propri figli da un destino segnato. Il loro contributo è stato fondamentale per decifrare le dinamiche interne alle cosche, soprattutto quelle invisibili ma uscire dalla ’ndrangheta è un’impresa quasi impossibile, perché chi decide di parlare è costretta a rinunciare a tutto, e vive per sempre sotto protezione. Eppure, proprio da queste scelte nasce un fronte di rottura, che mette in discussione uno dei pilastri più solidi dell’organizzazione, ovvero, il ruolo della donna come garante silenziosa del sistema.

Giuseppina Pesce, la scelta di rompere il silenzio
 

Tra le storie più emblematiche di ribellione al sistema mafioso, quella di Giuseppina Pesce spicca per coraggio e determinazione. Figlia di Salvatore Pesce, boss dell'omonima cosca di Rosarno, Giuseppina ha deciso di collaborare con la giustizia nel 2010, fornendo informazioni cruciali sulle attività della ’ndrina. La sua testimonianza ha portato all'arresto di numerosi affiliati e ha rappresentato un duro colpo per la cosca, dimostrando che anche dall'interno è possibile opporsi al sistema mafioso.

Pina Auriemma, l'intermediaria nel delitto Gucci


Un altro esempio di donna coinvolta in dinamiche criminali è quello di Giuseppina "Pina" Auriemma, amica e confidente di Patrizia Reggiani. Condannata a 19 anni e 6 mesi di reclusione per complicità nell'omicidio di Maurizio Gucci, Auriemma ha svolto il ruolo di intermediaria tra la Reggiani e i sicari incaricati del delitto. La sua figura evidenzia come le donne possano essere coinvolte attivamente in crimini complessi, assumendo ruoli strategici all'interno delle dinamiche criminali. Questi esempi dimostrano la complessità del ruolo femminile nelle organizzazioni mafiose, oscillante tra la perpetuazione delle tradizioni criminali e il coraggio di spezzare le catene dell'omertà. Nel contesto di Cosa Nostra, invece, resta scolpita la figura di Teresa Marino, moglie del boss Leoluca Bagarella e cognata di Totò Riina: donna di carattere e ferma sostenitrice dei principi dell’organizzazione, tanto da essere descritta dagli investigatori come "più feroce del marito". Questi esempi mostrano come, lontano dai riflettori, alcune donne abbiano assunto ruoli strategici nelle mafie, contribuendo attivamente al mantenimento o alla rottura del sistema criminale.