"Sono rimasta indifferente alla notizia della morte di Riina. Ho sempre sostenuto che lo Stato, diverso dalla mafia, avesse il dovere di garantire in carcere tutte le cure necessarie fino all’ultimo istante di vita anche al più pericoloso e sanguinario dei mafiosi". Inizia così il suo messaggio Rosanna Scopelliti, figlia di Antonio Scopelliti, il magistrato calabrese del maxiprocesso a Cosa Nostra ucciso il 9 agosto 1991 a Villa San Giovanni. Una lunga disamina lasciata sul suo profilo Fb, dove afferma:

"E credo fortemente, così come lo credeva papà, che il sistema carcerario debba essere finalizzato non solo alla pena, ma al reinserimento nel tessuto sociale per chi ha una condanna da scontare e alla rieducazione (“riumanizzazione”, mi piace pensare) anche per chi concluderà la propria esistenza in cella.



La sentenza della CEDU mi lascia perplessa perchè va ad indebolire il principio della certezza della pena, togliendo al legislatore la possibilità di riconoscere la specificità di alcuni reati. E se si mette in discussione la certezza che se sei mafioso, ammazzi, ordini stragi, colpisci lo Stato in un qualche modo la pena che ricevi, per quanto dura, può essere alleggerita o che la scelta di collaborare non serve a offrirti dei benefici, allora si mette in discussione tutto il percorso fatto fin qui dai magistrati. Ci si indebolisce.

Tutto nasce dal grande equivoco di aver chiamato queste persone “pentiti”, il pentimento è una cosa intima, allo Stato e per certi versi anche a noi vittime, interessa solo che collaborino, che mandino in galera altri mafiosi, che ci dicano chi ha premuto quel grilletto, dove è stato sepolto quel bambino, chi ha ordinato chiudere la bocca a quel giornalista.
Guardiamoci in faccia: crediamo davvero che i collaboratori di giustizia siano tutti pentiti dei reati commessi? Io no. Ma credo che la scelta di collaborare, anche solo per avere dei benefici, sia necessaria.

“Si ma spesso non collaborano per non mettere a repentaglio le famiglie”. Concordo. Allora si lavorasse a tutti i livelli per garantire loro più sicurezza. Ma non ha senso demolire un impianto legislativo che ha permesso di segnare dei punti importanti contro le mafie.

Questa è una lotta che non si può vincere a mani nude. I magistrati fanno l’impossibile, ma non sono super eroi. E, citando papà, “il codice di procedura penale non è fatto i birbanti, ma per gli onesti”.
Ecco diamo agli onesti la certezza che i mafiosi scontino una pena commisurata alla loro violenza, senza permessi premio o alleggerimenti senza avere, noi Stato, nulla in cambio.

Ultima cosa. Tra i diritti dell’uomo ci dovrebbe essere anche la tutela della vita.
Il diritto per i genitori di veder crescere i propri figli e per noi figli di essere accompagnati nella vita dai nostri genitori. Che siano essi magistrati, poliziotti, giornalisti, persone oneste che fanno il proprio lavoro. Perchè per noi che restiamo, che cerchiamo quel sorriso o quell’abbraccio che ci è stato strappato dai mafiosi il fine pena non esiste. Mai.