Calabria Terra di beni confiscati: Ma chi li cura davvero?
Oltre 5.500 sono stati sottratti alla criminalità ma poi non si sa che fine facciano

In Calabria, la geografia criminale si può disegnare anche attraverso le mappe dei beni confiscati. Palazzi, appartamenti, appezzamenti di terra, magazzini, agriturismi, ville da sogno, e perfino imprese agricole: oltre 5.500 beni sono stati sottratti in via definitiva alla ‘Ndrangheta, l’organizzazione mafiosa più potente d’Europa. Di questi, circa 550 sono aziende agricole.
Un numero impressionante, che racconta non solo la vastità del controllo economico mafioso, ma anche le opportunità – teoriche – che potrebbero nascere dalla restituzione alla collettività di queste ricchezze. Ma la vera domanda è: questi beni vengono davvero recuperati e restituiti a fini sociali o vengono lasciati morire lentamente, in un limbo burocratico e gestionale?
La Calabria regina delle confische, ma anche delle occasioni perse
In base ai dati aggiornati dell’Agenzia Nazionale per l'Amministrazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc), la Calabria è tra le regioni con il più alto numero di beni confiscati in Italia. A livello percentuale, è seconda solo alla Sicilia. Un dato che evidenzia quanto la ‘Ndrangheta non sia solo una struttura militare, ma anche una gigantesca macchina economico-imprenditoriale.
Le confische riguardano beni immobili ma anche aziende agricole e agroalimentari, segno che il crimine ha sempre saputo mimetizzarsi nella tradizione produttiva del territorio. Coltivazioni di agrumi, uliveti, frantoi, caseifici, aziende vinicole: tutto è stato infiltrato, usato per riciclare, estorcere, comprare consenso e silenzio. Ma una volta sottratti alla mafia, che fine fanno questi beni?
Dalla confisca al riutilizzo: un percorso tortuoso
Sulla carta, la Legge 109/96 (voluta da Libera e dal movimento antimafia degli anni ‘90) prevede che i beni confiscati siano riutilizzati a fini sociali, culturali o istituzionali: possono diventare scuole, centri per donne vittime di violenza, fattorie sociali, biblioteche, cooperative di lavoro, sedi di associazioni. Una rivoluzione silenziosa. Tuttavia, la realtà operativa è ben più complessa, fragile e spesso deludente.
Molti beni restano abbandonati per anni: mancano i fondi per il recupero strutturale, le procedure sono lente, le gare pubbliche si desertificano.
Le amministrazioni locali sono spesso impreparate o, peggio, boicottano attivamente l’uso sociale dei beni per timore, ignavia o complicità con i vecchi “padroni”.
Le aziende agricole confiscate sono un caso a parte: richiedono gestione tecnica, capitale iniziale, competenze, continuità. Invece, spesso restano senza guida, finiscono sotto sequestro giudiziario per irregolarità, o sono affidate a soggetti non adeguatamente formati.
Esempi virtuosi ci sono, ma sono gocce nel deserto
Non mancano le storie positive. Cooperative come "Valle del Marro – Libera Terra", attiva nella Piana di Gioia Tauro, gestiscono terreni confiscati alla ‘Ndrangheta e producono olio, agrumi, legumi e conserve bio, offrendo lavoro e dignità. Progetti come questi dimostrano che un modello alternativo di sviluppo è possibile.
Ma la verità è che su 5.500 beni, solo una piccola parte viene effettivamente restituita alla collettività. Molti giacciono inutilizzati, vandalizzati, depredati, diventando simboli amari di una promessa incompiuta. Alcuni sono occupati abusivamente. Altri sono oggetto di ricorsi legali infiniti che bloccano tutto per anni.
La Calabria – che ha sete di lavoro, cultura, servizi pubblici – continua a sprecare un patrimonio immenso, lasciandolo svanire nel degrado.
I nodi critici del sistema
Perché questo succede? Ecco alcuni degli ostacoli strutturali che frenano il riuso sociale dei beni confiscati: Burocrazia farraginosa: tra il sequestro, la confisca definitiva e l’assegnazione possono passare anche 10-15 anni. Mancanza di risorse: i Comuni spesso non hanno i fondi per ristrutturare o mettere a norma i beni. Isolamento dei soggetti virtuosi: le associazioni che vogliono gestire i beni vengono lasciate sole, sotto attacco, senza protezione istituzionale. Assenza di visione regionale: manca una cabina di regia che metta in rete progetti, enti, università, fondi europei. Paura e omertà: in molte comunità, la mafia non è ancora "sconfitta" nel consenso, e riutilizzare un bene confiscato significa sfidare il potere radicato.
Una questione di volontà politica (e di coraggio civile)
La gestione dei beni confiscati non è un dettaglio tecnico, ma una grande questione democratica. È la misura con cui si valuta la capacità dello Stato di essere credibile nei territori dove lo Stato è stato a lungo assente o complice.
In Calabria, ogni bene confiscato non assegnato, lasciato marcire, dimenticato, è un’occasione sprecata. È un messaggio sbagliato: che la mafia può essere sconfitta solo in tribunale, ma non nella vita reale.
Serve un cambio di passo strutturale: task force dedicate, fondi vincolati, affiancamento tecnico, snellimento delle pratiche, tutela per chi ci mette la faccia. Servono più mani, più voci, più coraggio.
Il patrimonio c’è, ma serve una volontà collettiva
I beni confiscati rappresentano una delle più grandi risorse economiche, simboliche e civili che l’Italia ha per rigenerare i territori devastati dalle mafie. In Calabria, questo patrimonio è immenso – ma non possiamo permetterci che diventi un cimitero di possibilità.
Ogni bene recuperato è una risposta concreta alla cultura mafiosa. Ma ogni bene abbandonato è un favore alla mafia stessa, che così continua a dire: “Vedete? Senza di noi, non sapete che farvene”.