Maiale
Maiale

In Calabria, ancora resiste la tradizione dell’uccisione e della trasformazione del maiale domestica, appena tollerata dalle istituzioni sanitarie, è un evento che va man mano scomparendo, perché non ci sono più gli uomini e le donne con le capacità di un tempo in grado di gestire tutte le fasi necessarie a trasformare un maiale vivo in decine di prodotti di norcineria.

Un rito di lavoro e festa

L’uccisione del maiale, insieme alla vendemmia ed alla trebbiatura, era un vero e proprio rito, un appuntamento atteso, una festa, il piacere dello stare insieme tra lavoro, chiacchere e buona tavola. Un evento che coinvolgeva tutta la famiglia, bambini e vecchi compresi, ma anche il vicinato, per la sana abitudine di darsi una mano reciprocamente.

La squadra e l’organizzazione del lavoro

Ai bambini dai 10 anni in su era demandato il compito di trattenere il maiale in procinto di essere scannato dalla coda, questa prima fase come tutte le altre aveva un vero e proprio organigramma che vedeva ogni componente della squadra come una brigata, dove ognuno un compito specifico. Di solito il più anziano e con più esperienza era colui che scannava il maiale portato, anzi trascinato o portato allettandolo con dei cereali dalla “zimma” urlante e riottoso come se avesse il presentimento di ciò che di li a poco gli sarebbe accaduto. Nel frattempo le donne più giovani curavano il fuoco e l’acqua calda, anzi bollente, che riempiva la “quadara” pentolone in rame che riusciva a contenere anche oltre 100 litri di liquido.

La raccolta del sangue e la spelatura della carcassa

Alla donna più anziana era dato il compito infelice di raccogliere il sangue della scannatura e contemporaneamente rimestarlo con un ramoscello di origano o di altra essenza arborea per evitare il coagulo. Gli altri uomini i più giovani e forzuti, almeno quattro erano incaricati di tener immobile il maiale sulla “mailla” ribaltata e disposti secondo la forza e la capacità di ognuno, questa era la squadra tipo. Dopo che il bravo “porcaro” aveva portato a termine il suo compito quello di scannare, utilizzando una lama a doppia affilatura su entrambi i lati definita “scannaturu”, l’opera era ben riuscita se il sangue fuoriusciva tutto con una certa lentezza senza che invece un fendente mortale provocasse un immediato arresto cardiaco e bloccasse il defluire del sangue.

Preparativi per la squartatura

Solo a morte avvenuta la carcassa esangue veniva sottoposta a spelatura utilizzando l’acqua bollente della “quadara” portata dalle donne all’interno di orci di argilla le “pignate” che ne mantenevano la temperatura, ammorbidendo il cuoio (la coria) in tal modo gli uomini passavano con i coltelli affilati come rasoi a radere le setole mentre l’acqua calda continuava a essere versata per tutto il tempo necessario affinché il cuoio apparisse completamente liscio e rasato. Solo adesso gli uomini, solo loro, si concedevano una pausa, era il momento “du mursieddru”, pipi e patate, vino, formaggi, salumi e sottolii di tradizione, non era una colazione pesante, ma energetica e corroborante, la pausa serviva anche a far raffreddare la carcassa del maiale.

Il sollevamento della carcassa e la squartatura

Nel frattempo veniva assicurato un gancio alle travi o ad un albero in alto, tutta questa prima fase veniva eseguita quasi sempre all’aperto, messo su il gancio, si tiravano fuori i tendini dalle zampe posteriori inserendo negli spazi creati “u gammieddru” un attrezzo di legno, derivato da un ramo robusto configurato a V, somigliante ad un boomerang, con le parti finali appuntite tipo freccia e con una scanalatura anti estrazione come appunto la freccia. 

La pulizia interna e la preparazione del fegato

La funzione effettiva però “du gammieddru” era quella di tenere le gambe divaricate per favorire il taglio delle mezzene, la “squartatura”. A questa operazione era dedicato un solo uomo di grande esperienza coadiuvato da altri due solo per tenere ferma la carcassa, l’operazione e delicata assai, bisogna evitare assolutamente che l’urina o le feci, oppure il fiele, entrino in contatto con la carne.

Il pranzo e il rito del sanguinaccio

Fondamentalmente il pranzo era abbondante e durava quasi fino a sera, i commensali nell’attesa delle portate quasi sempre disquisivano di caccia finendo sempre a confrontarsi sul fatto se era meglio il vino vecchio il vino nuovo...

Il taglio delle mezzene

Il resto della sezionatura procede con precisione fino a raggiungere l’apparato digerente e quello intestinale. Le donne predispongono un contenitore, un tempo una “sporta” fatta con canne e ramoscelli di salice, con un panno all’interno, che raccoglie tutte le interiora. Mentre le donne si allontanano per lo svuotamento e la pulizia presso corsi d’acqua o fontane di campagna, il porcaro estrae il fegato, separando con cura la piccola vescica contenente il fiele, insieme a cuore e polmoni.

La divisione e la frollatura

Una volta svuotata la carcassa, si procede con un’ascia alla divisione delle mezzene. Rimane infine il pezzetto dello sterno, conosciuto come “osso du purcaru”, simbolica paga del porcaro. Le mezzene vengono poi riposte su tavole nei magazzini a frollare per circa 12 ore.

Il pranzo come celebrazione del rito

La tradizione vuole che le donne prelevino alcune carni per il pranzo. Ziti spezzati o maltagliati al ragù di maiale, carni cotte al caminetto, e contorni di verza conditi con aceto completano il ricco pasto. La convivialità del pranzo, accompagnata da vino e discussioni, segna un momento di celebrazione collettiva.

Il secondo giorno: la lavorazione dei salumi

Il secondo giorno è dedicato alla separazione dei tagli e alla preparazione dei salumi. Soppressate, salsicce e “nnugglia” vengono insaporite con sale, peperoncino e altri aromi, quindi riposte in mastelli di legno per la scolatura. Dopo ore di asciugatura, i salumi vengono appesi per la stagionatura, esposti all’aria e al fumo del camino.

Le preparazioni dei grassi e delle frittole

Il terzo giorno vede la lavorazione dei grassi, messi a bollire nella “quadara” per ottenere la sugna. Le frittole, legate a fasci, vengono cotte a lungo, pronte per essere consumate in primavera con le fave. Le ossa, ben cotte, offrono l’ultimo pasto conviviale della lavorazione.

La preparazione del “suzu” e della carne conservata

La sera del terzo giorno è dedicata alla preparazione del “suzu”, un piatto gelatinato ricavato dalla testa, dai piedi e dalle parti più tenere del maiale. Le donne, inoltre, concludono il lavoro preparando la carne “ncantarata”, conservata in vasi per ragù spettacolari durante l’estate.

Un’arte che si sta perdendo

Oggi, molti passaggi di questa tradizione sono quasi del tutto scomparsi. L’alimentazione industriale dei maiali e le tecniche moderne non permettono più di ottenere i sapori e i profumi di un tempo. Tuttavia, la memoria di queste antiche pratiche rappresenta un patrimonio culturale unico, radicato nelle famiglie e nelle comunità calabresi.