A volte la sincerità è l'ingrediente più difficile da mettere in tavola.
La scena è quasi un copione consumato: il cliente, seduto al tavolo, fissa il cameriere che, con un sorriso neutro ma inquisitorio, pronuncia la fatidica domanda: “È stato tutto di vostro gradimento?”.
Gusto ribelle
La scena è quasi un copione consumato:
il cliente, seduto al tavolo, fissa il cameriere che, con un sorriso neutro ma inquisitorio, pronuncia la fatidica domanda: “È stato tutto di vostro gradimento?”. E lì yaccade l’inevitabile: nonostante una cena che gli ha lasciato più dubbi che piaceri, il cliente annuisce con cortesia, rispondendo alla domanda con un laconico “Sì, tutto bene, grazie”, sfoderando anche un forzato sorriso. Ecco, questo è il momento in cui nasce e si manifesta la sindrome del sorriso digerente, una patologia diffusissima nel mondo della ristorazione.
Non è solo una questione di gentilezza, ma un fenomeno più complesso. Il cliente, di fronte a una domanda così diretta, spesso si trova disarmato. C’è il timore di ferire il cameriere o, peggio, il cuoco, come se ogni piatto fosse un’opera d’arte in cui il ristoratore abbia riversato l’anima, e non una pasta scotta o un pesce insapore. Criticare sembra un atto di aggressione, una dichiarazione di guerra che il cliente medio, desideroso solo di uscire in pace dal locale, preferisce evitare. E così si rifugia in quel “sì” di circostanza, come un passaggio segreto per sfuggire al conflitto.
Ma non è solo questione di educazione o di fuga.
C’è un retroscena più profondo: il cliente, in fondo, non vuole sembrare il rompiscatole di turno. Quel “sì, tutto bene” è una maschera per coprire il disagio di chi non vuole passare per esperto intransigente o, peggio, per uno di quei personaggi temuti in sala: il cliente che "sa tutto lui". Il risultato? Una danza dell’ipocrisia, dove il cameriere si illude che tutto sia andato a meraviglia e il cliente si allontana con la tacita promessa di non mettere mai più piede in quel ristorante.
In tutto questo, il comportamento del cliente non è poi così diverso dalla sindrome di Stoccolma: una sorta di empatia forzata verso il ristoratore, visto non più come il responsabile della delusione gastronomica, ma come una vittima da proteggere. Il cliente, come l’ostaggio della metafora originaria, si convince che sia meglio non incrinare il rapporto, che il cameriere non meriti una critica – per quanto meritata – e che alla fine non sia poi così grave. Si crea così un paradossale legame emotivo, una complicità quasi patologica che lascia tutto invariato, a discapito del gusto e dell’esperienza.
È una dinamica che condanna la ristorazione alla mediocrità.
Quando un cliente mente per cortesia e un ristoratore si accontenta di quel finto elogio, si spezza la possibilità di migliorare. Eppure, non c’è nulla di più utile di un’opinione onesta, se solo entrambi – cliente e ristoratore – trovassero il coraggio di affrontare la verità. Il problema, però, è che spesso il ristoratore non vuole davvero ascoltare una critica e il cliente non vuole davvero darla. Il risultato è una commedia degli equivoci, dove tutti recitano una parte e nessuno impara nulla.
L’ironia è che, in fondo, questa dinamica è anche autoironica.
Si ha quasi l’impressione che il cliente, rispondendo “sì, tutto bene”, stia giocando un ruolo che il ristoratore conosce già. E forse, in un universo parallelo, il cameriere potrebbe rispondere: “Non ci credo nemmeno io, ma grazie lo stesso”. Sarebbe un momento di rara sincerità, un’apertura alla possibilità che la ristorazione non sia solo una transazione commerciale, ma un dialogo umano, fatto di sapori, emozioni e, perché no, critiche costruttive.
Forse un giorno arriveremo al punto in cui i ristoratori non temeranno più i feedback e i clienti non si sentiranno in colpa per aver espresso un'opinione. Ma fino ad allora, continueremo a vivere questa tragicommedia, fatta di cene tiepide e sorrisi posticci, in attesa che qualcuno spezzi il cerchio con un po’ di onestà gastronomica.