Il processo dei 117 rappresenta uno dei momenti più controversi e significativi nella lotta alla mafia italiana degli anni '60. Si trattò del primo grande processo giudiziario contro un'organizzazione mafiosa italiana svoltosi a Catanzaro. L'evento si concluse con la quasi totale assoluzione degli imputati, suscitando critiche e riflessioni profonde sulle capacità dello Stato - soprattutto in quel periodo - di affrontare la criminalità organizzata. Venticinque anni dopo si sarebbero aperte le porte di quelle che saranno le stragi che più sconvolsero l’opinione pubblica, facendo conoscere la ‘mafia’ al di fuori dei confini siciliani, come quella di Capaci e viale d’Amelio. Il contesto storico in cui si inserisce questo processo è quello della prima guerra di mafia, culminata nella strage di Ciaculli del 30 giugno 1963, un evento tragico che portò alla morte di sette persone e segnò un momento di forte crisi per l'opinione pubblica italiana. Tale episodio costrinse le istituzioni ad adottare misure eccezionali, tra cui la creazione della prima commissione d'inchiesta parlamentare sulla mafia. A Palermo il giudice istruttore Cesare Terranova, supportato dal procuratore Pietro Scaglione, avviò un'indagine su larga scala, basata su rapporti di polizia e testimonianze significative come quella di Serafina Battaglia, vedova di due vittime della mafia, e quella dell'imprenditore Giuseppe Ricciardi, vittima di estorsioni. Le indagini portarono al rinvio a giudizio dei principali esponenti mafiosi dell'epoca, come Angelo La Barbera e Pietro Torretta, le cui sentenze-istruttorie vennero poi unificate nel cosiddetto "processo dei 117". 

Il processo a Catanzaro

Il processo iniziò nel 1965 a Catanzaro, in una palestra dell'istituto statale Pascoli-Aldisio, scelta dettata sia dall'impossibilità di organizzare un processo di tale portata in Sicilia sia dalla necessità di evitare intimidazioni verso i testimoni. Tra gli imputati figuravano nomi di rilievo come Luciano Liggio, Salvatore Greco, Giuseppe Calò e Gaetano Badalamenti. Nonostante la gravità delle accuse, il processo si concluse il 22 dicembre 1968 con un numero esiguo di condanne: Pietro Torretta ricevette 27 anni di carcere per un duplice omicidio, Angelo La Barbera fu condannato a 22 anni e 6 mesi, mentre Salvatore Greco e Tommaso Buscetta, giudicati in contumacia, ottennero 10 anni ciascuno. La maggior parte degli imputati fu assolta per insufficienza di prove, poiché all'epoca non esistevano leggi che riconoscessero l'appartenenza a un'organizzazione mafiosa come reato. L'esito del processo, come altri dello stesso periodo, lasciò l'amaro in bocca agli esperti e all'opinione pubblica, evidenziando la mancanza di strumenti giuridici adeguati per combattere la mafia. L'effetto sociale fu devastante: da una parte, gli imputati assolti uscirono rafforzati nella loro autorevolezza, dall'altra si registrò un diffuso senso di sfiducia nelle istituzioni. Nel 1969 un altro processo a Bari, riguardante molti degli stessi imputati, si concluse anch'esso con l'assoluzione totale, affermando l'inconsistenza dell'idea di mafia come associazione a delinquere. La fragilità giudiziaria e la mancanza di norme adeguate contribuirono alla ripresa degli scontri interni tra fazioni mafiose, culminando nella strage di viale Lazio del dicembre 1969, evento che segnò la fine della fragile pax mafiosa successiva alla strage di Ciaculli.